23 ago 2012

Lo zio Carlo

E' sempre stato lo zio più burbero, lo zio contadino, lo zio con la gobba sulla schiena, piegata da troppi anni di forca e pala in mezzo ai campi. Lo zio socialista prima innamorato perdutamente di Craxi e poi deluso e disperato dal buon Bettino, tanto da averlo visto ubriaco più di una volta attorno al tavolo in cui mangiavamo tutti insieme dopo la vendemmia. Il suo leader di vita aveva ridotto in poltiglia l'Italia, il partito, la fiducia di milioni di persone che come lui ci credevano. Era giusto chiudere l'amarezza e lo sconforto nel vino. E così giù di lambrusco, ad urlare e imprecare. Ricordo anche i primi accenni a Berlusconi. Ero un'adolescente curiosa, adoravo quella cagnara e tutto quel bailamme in cui ogni voce diventava un canale a sè. Lunghi monologhi scomposti. Zio Carlo, zio Giorgio, Eugenio, mio padre, le donne che si facevano aria con il grembiule e aspettavano pazienti che si calmassero le acque.

Lo zio Carlo si è sempre fatto il riporto nei capelli. Da dietro la nuca partiva questa fila di capelli sottili che cadeva sulla fronte come una bandana di pensieri bianchi. Quando sudava si aprivano tutti, scomposti, e col dorso della mano cercava di aggiustarli come poteva. Mi faceva impressione vedere pezzi della sua fronte scoperti. Succedeva raramente.
Lo zio Carlo, omone grande e grosso e ricurvo, non è mai uscito dal suo paesello di campagna. Ha sposato la zia Novella da giovane (ah che bella questa mia zia, da cui ho ereditato il naso a patata, come se lo avessero staccato a lei per posizionarlo a me). Insieme hanno coltivato tante ma tante susine, albicocche, pesche, mele, la vigna per fare il vino buono, i pomodori, l'insalata, le zucchine che mai più ho mangiato così dolci e croccanti. Poi c'erano le galline, le faraone, i francesini, le mucche che mi davano il latte fresco da bollire nel cucinotto. Quante mosche da togliere. Ma che buono, che buono questo latte come oro bianco. C'era anche il toro, una manciata di galli, il cane. Sempre Dik. Ne ho conosciuti almeno cinque. "Zio come lo chiamiamo stavolta?" "Dik". Si confondono tutti nell'amalgama della mia memoria. Quello di adesso, Dik ultimo, ringhia sempre.
Dallo zio Carlo si andava ogni week end, a raccogliere i frutti della terra, salendo sui carri, cantando canzoni, spettegolando di chi mancava, ridendo, mangiando le mele ammaccate che non erano buone da vendere.
Lo zio Carlo lo guardavi e pensavi che sì, era un tutt'uno con la terra che pestava. Anche d'inverno, quando rimaneva sul divano a guardare i suoi programmi di politica con le gambe coperte dal panno a scacchi, vedevi che i suoi occhi correvano alla finestra verso gli alberi nudi. Con uno sguardo li vestiva di frutti, lo capivi subito. Stava facendo l'amore coi suoi campi.

Lo zio Carlo adesso è un po' ammattito. Non si ricorda le cose, tranne quelle legate alla sua giovinezza. Qualche giorno fa eravamo seduti all'ombra del salice piangente, mentre gli altri zii stavano bollendo i pomodori nei paioli per fare la conserva. Io col mio pancione, lui col suo bastone e lo sguardo triste. Lo zio Carlo non parla più, non ricorda chi è e cosa fa, non ricorda se è lunedì, sabato, marzo o novembre. Però mi ha guardato a lungo e ad un certo punto mi ha detto:  "Da giovane ne abbiamo combinate di tutti i colori. Andavamo con Sergio in sella alla Gilera, che un pieno costava 50 lire, e cercavamo le feste per ballare con le ragazze, anche se una volta le loro mamme facevano le guardie del corpo e ci controllavano da lontano".
Poi ve lo giuro: due ore a parlare di Giovetti e Martignoni, Franco che aveva pisciato nel coppetto di Aldo durante una sbronza, il primo ballo con la zia Novella "gli ho dato un pestotto in un dito del piede che se l'è quasi rotto e lei non ha detto nulla. Ho capito lì che l'avrei dovuta sposare perchè forse sarebbe stata capace di sopportarmi in silenzio, tante volte". Così è stato. La zia Novella è una donna dolce e remissiva. Lo sopporta tuttora, nelle sue lunghe giornate di parole non dette e lunghi silenzi, e lo so che ogni tanto si chiude in bagno a piangere perchè vorrebbe di nuovo il suo vecchio marito scontroso e brontolone. Come soffre la zia Novella, la vorrei ricoprire di cose belle.
E così dopo tanto parlare, tante date e tanti dettagli, lo zio Carlo aveva il fiatone. La saliva gli colava da un lato del labbro, gli occhi si riempivano di liquido trasparente, le mani tremavano. Il filo del discorso era sfilacciato, ma io l'ho tenuto tra le mani con bramosia e ho deglutito i singhiozzi, accarezzandomi la pancia e pensando che a mio figlio darò proprio il nome di suo padre, morto a 96 anni ancora arzillo e lucido come un ragazzino.
Poi i pomodori hanno finito di bollire, era quasi mezzogiorno, e lo zio Carlo, come sempre, aspettava il suo piatto di spaghetti. Lo zio Carlo lo ricorderemo tutti per il suo amore socialista e per la passione incondizionata per gli spaghetti. Sei giorni a settimana, tranne la domenica per lasciare spazio a tortellini o lasagne bollenti. Per fortuna, però come diceva lui, ritornava il lunedì.
Siamo andati in cucina, questa cucina vecchia e stantìa recuperata da una vecchia cantina. Piano piano lo zio Carlo ha trascinato le gambe stanche e ha iniziato ad apparecchiare. Prima i bicchieri, le posate, i piatti, poi una bella tovaglia a coprire tutto. "Ecco fatto". L'ho abbracciato e gli ho chiesto "Ma la Gilera andava forte?". E tremando incerto, si è seduto nuovamente, raccontandomi di quella volta che la zia Luisa si stava per sposare con lo zio Renato e al prete mancava un documento. "Sono montato in sella al mio ronzino, stavo per ammazzarmi contro un albero ma in dieci minuti ho fatto tutto e ho portato la carta che serviva! Vè mò se andava forte!".

Ho tolto la tovaglia, ho sparecchiato, riapparecchiato, scolato gli spaghetti e l'ho guardato mangiare come quando avevo dieci anni.
Erano buoni, mi ha detto, sono sempre buoni gli spaghetti del lunedì.
E tremando, si è asciugato gli angoli della bocca dalla conserva di pomodoro. Quel pomodoro rosso e vivo appena bollito nel giardino della sua adorata casa di campagna.

16 commenti:

Giovy Malfioriu ha detto...

Che post magnifico...

elena petulia ha detto...

Ma quanto ho pianto. Non lo puoi sapere.

Liu_Jo ha detto...

Davvero un bel post

Queen ha detto...

mi sei mancata :*
post meraviglioso, come al solito

Gio ha detto...

il nostro passato, il mio e il tuo, hanno lo stesso odore, cambia solo l'accento. mi sono talmente commossa che non ho nemmeno pianto. grazie per questa storia straordinaria.

Tikli ha detto...

Senza parole,una storia semplice e meravigliosa :)

LaCriz ha detto...

Che bello...mi ha ricordato che tutti nella vita abbiamo uno zio Carlo..il mio si chiamava Giovanni, e mi mancano tanto i suoi racconti...Grazie per avermeli ricordati col tuo post!
Dai che ti manca poco così la traguardo.....

Lego ha detto...

Sorrido e piango e vorrei abbracciare anche io questo Zio Carlo, così meraviglioso.
Ti stringolo

Eta ha detto...

Lacrime anche io, che un giorno ti racconterò.

Vorrei fare quella cosa speciale in tempo per il tuo Gran Giorno, Calzino speciale. Non so se farò in tempo, ma intanto ti abbraccio, piano, con dolcezza.

La tua bellezza così sana mi fa venire in mente l'Idea della Kalokagathia.

Grazie, perché è un pensiero che mi abbevera la linfa.

ventopiumoso ha detto...

oh! e mi hai fatto pensare ai miei zii carlo e ci ho il groppo pure io, ci ho. giusto ieri sera ho provato a raccontare a un amico canadese del mio "posto (e tempo) delle fragole", ma ben peggio di così.

e allora ti regalo due cose. due saluti di persone tanto care che sono scomparse ormai da tanti anni.

la prima era un vecchietto di quelli della fiabe, una vita nei campi del sud, ora vecchio secco e ricurvo, capelli radi bianchissimi, rughe profonde, bastone. il padre di un mio zio. abitava nel mio posto delle fragole, insieme ad una nonna (sono convinto che ne fosse segretamente innamorato) e zii e cugini. un posto molto simile alle descrizioni classiche del paradiso.

ogni estate, quando scendevo al mare, lo accompagnavo nelle sue sempre più brevi polverose passeggiate. 300 metri, 200 metri, 100 metri, 50 metri, finché un anno quasi non usciva dalla stanza. ricordo bene quando andai a salutarlo quell'ultima volta, prima di prendere il treno, nella sua stanzina in penombra. si alzò a fatica, mi guardò, e biascicò in dialetto: "vi ringrazio per tutto l'amore che mi avete dato".

poche settimane dopo morì, pacifico, nel suo letto, ben oltre i 90 anni.

il secondo ricordo è invece di mia nonna (non quella di cui era, forse, innamorato il vecchietto), alcuni anni dopo. erano diversi anni che non scendevo dai miei parenti. l'occasione fu funesta, un caro zio che ebbe un gravissimo incidente. lo zio era uno dei figli di questa nonna, che a sua volta ormai da tanti mesi era ferma a letto, consumata dalla vecchiaia e dalla malattia, non sempre lucida, e che si metteva sedere solo se aiutata da qualcuno.

entrai in casa e mi vide. dopo qualche attimo di sorpresa lo sguardo si sciolse in uno dei visi più splendidi che io ricordi. disse il mio nome e aggiunse, nel suo dialetto:
"mi 'ssilava 'u cori mu ti viru".

è intraducibile, ma più o meno in italiano suonerebbe come: "il mio cuore era assillato dal desiderio di rivederti", credo la più bella dichiarazione di amore che abbia mai sentito ed il più bel verso di poesia che io abbia mai udito. da lei, che non sapeva leggere e scrivere quello che c'è sui libri, ma che evidentemtene conosceva ben altri linguaggi, più profondi e nascosti.

ecco, ho condiviso questi ricordi, che ancora oggi mi commuovono terribilmente, perché il tuo post me li ha fatti tornare alla memoria, e quindi è giusto così.

due momenti per cui alla fine della mia vita, se sarò lucido, penserò che è valso la pena vivere.

abbraccio calzino, a te e al calzino piccino :)

latteaigomiti ha detto...

è un post bellissimo mi vien voglia di prendere un treno e venire ad abbracciarti/vi
Grazie per avermi catapultato là con voi.

ribbon. ha detto...

purtroppo anche io ho visto i nonni svanire piano piano
persi nei loro cervelli, con gli occhi fissi che chissà cosa guardavano
il carattere cambiato radicalmente che avrebbero potuto essere altre persone, se non che avevano l'aspetto che avevano sempre avuto...

mi hai fatta piangere ma mi hai resa felice di sapere che c'è qualcuno che come me ama gli spaghetti col pomodoro così tanto, so che di sicuro io da vecchia li mangerò tutti i giorni, perchè sono la cosa più buona del mondo.

un bacio a te e allo zio carlo :*

ribbon. ha detto...

ah e poi Calzì io non lo vedo il naso a patata...

Maria D'Asaro ha detto...

Calzino, io a questo post faccio una cornice e lo metto sul mio comodino. Se non fosse che tu sei sposata e hai un calzinino e io ho già un compagno e tre figli, ti sposerei!!! Pensi, vivi e scrivi con una sensibilità uguale alla mia.

mgg64 ha detto...

mi hai fatto piangere Calzì...mann

D'Aria ha detto...

Che bello questo racconto Calzì. E' bello, è trsite, è felice.
E' lo Zio Carlo.